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Combattere le fake news, il cyberbullismo, qualsiasi distorsione della rete social negandone l’esistenza. Ma è questa la soluzione?
Colpevolmente ammetto di non conoscere nulla del lavoro di S. Matthew Liao, filosofo dal curriculum prestigioso (Princeton, Oxford ecc) di cui si parla molto in questi giorni. Liao ha scritto un articolo per il New York Times che ruota attorno a una domanda molto filosofica e potente: abbiamo noi il dovere etico di abbandonare Facebook? Dobbiamo – si chiede il filosofo – essere da esempio per i nostri amici abbandonando la piattaforma, dobbiamo opporci gandhianamente alla diffusione delle notizie false semplicemente negandoci al principale meccanismo della loro diffusione?
Siamo in altre parole giunti al punto di non ritorno, varcato il quale non conterà più granché come si possa partecipare al destino della comunità attraverso comportamenti etici individuali (agire correttamente, non fomentare l’odio nei commenti, essere gentili e responsabili ecc) perché è la macchina stessa, la piattaforma in sé ad essere diventata moralmente inaccettabile?
Si tratta di una domanda complicata che ognuno di noi potrà valutare secondo la propria sensibilità ma un aspetto resta in ogni caso degno di nota. Le domande del dott. Liao su New York Times sono domande che una società che ama definirsi contemporanea dovrà iniziare a porsi con maggior frequenza. Di cosa d’altro dovrebbe occuparsi la filosofia oggi se non di quesiti di questa natura? Facebook è o non è l’ambito sociale nel quale alcuni miliardi di abitanti del pianeta si ritrovano ogni giorno? E di cosa d’altro dovremmo occuparci oggi? Facebook è oggi – ci piaccia o no – il cielo stellato di Kant. Quando il diaframma psicologico sarà definitivamente interrotto allora davvero la cultura digitale, quella di cui si occupa l’articolo del quotidiano americano, potrà iniziare a definirsi semplicemente cultura.