Nuova Delhi ha avviato i lavori per il suo primo impianto per la produzione di microchip e prevede di iniziare le vendite entro la fine del 2024. Col placet degli Usa in ottica anticinese. Da Taiwan l’analisi di Lorenzo Lamperti
C’è una cosa che di certo non manca a Narendra Modi: l’ambizione. Economia, politica, tecnologia, cultura e persino storia: la sua India ha cambiato volto (non per forza in meglio) da quando ha preso le redini del governo nell’ormai lontano 2014. Ha prima sedotto i Paesi occidentali promettendo una grande apertura del mercato indiano, magnificandone le opportunità trainate da crescita economica ed esplosione demografica. Ha poi approfittato delle tensioni tra Stati Uniti e Cina per proporsi come alternativa diplomatico-commerciale a Pechino, attirando investimenti importanti e rientrando in tutti i progetti di sviluppo e di sicurezza che riguardano l’Asia, pur mantenendo ben saldi i piedi anche nelle piattaforme alternative come i BRICS. Ha beneficiato dell’interesse strategico di Washington affinché l’Occidente chiudesse più di una volta un occhio sulle sue pratiche interne, tutt’altro che democratiche. E ora persino esterne, come dimostra lo scontro diplomatico che si è aperto col Canada per l’omicidio del leader Sikh in British Columbia, Hardeep Singh Nijjar. Ora, alla vigilia delle elezioni del 2024 con cui mira al terzo mandato da primo ministro, Modi si è messo in testa un altro obiettivo: rendere l’India una superpotenza dei microchip.
L’obiettivo non è certo di immediata realizzazione e fino a qualche tempo fa sarebbe sembrato impossibile. Ma l’India ha già dimostrato di recente che nulla è impronosticabile, dopo il sorpasso alla Cina come Paese più popoloso al mondo e soprattutto dopo aver completato con successo il suo primo allunaggio con la sonda Chandrayaan-3.
Da Micron al Giappone
Per capire quanto sia considerato prioritario lo sviluppo indiano nel settore dei semiconduttori, basti pensare che Ashwini Vaishnaw, ministro dell’elettronica e delle tecnologie dell’informazione, tiene appeso alla parete del suo ufficio un disco da 12 pollici di semiconduttore di silicio, accanto a un ritratto di Modi. Ad agosto, la Micron Technology, colosso statunitense del settore, ha dichiarato di essere pronta a creare il primo impianto di fabbricazione di chip in India nel Gujarat. Una scelta simbolicamente importante, visto che si tratta proprio dello Stato da cui proviene Modi e da lui governato agli inizi della sua ascesa politica, quando peraltro si verificarono ampie violenze contro la minoranza musulmana. Il progetto di Micron creerà cinquemila posti di lavoro diretti e 15 mila indiretti nei prossimi anni.
L’obiettivo è avere i primi semiconduttori ufficialmente made in India entro la fine del 2024. Sarà solo l’inizio. Gli Stati Uniti hanno tutto l’interesse a intensificare la collaborazione con l’India nel settore dei chip. Lo stesso Modi ne ha parlato con Joe Biden durante la sua visita alla Casa Bianca dello scorso giugno. Oltre all’accordo con Micron, per il quale il gruppo statunitense spenderà 800 milioni di dollari, il produttore di apparecchiature per chip Applied Materials ha annunciato un piano per investire 400 milioni di dollari in un nuovo centro di ingegneria a Bengaluru. L’India sta approfondendo anche la sua partnership con il Giappone, che ha aziende di primo livello nei processi front-end e nelle attrezzature per la produzione di chip. A luglio, i due governi hanno firmato un memorandum d’intesa per promuovere la cooperazione nella catena di fornitura dei semiconduttori.
Modi mette sul piatto 10 miliardi
Nuova Delhi ha intanto recentemente riaperto le offerte per il suo programma di sovvenzioni da 10 miliardi di dollari per i produttori di chip dopo che tre candidati iniziali, tra cui un consorzio di gruppi industriali guidato da Vedanta e il fornitore taiwanese di Apple Foxconn, non erano riusciti a qualificarsi per il sostegno governativo. Nel rilanciare il processo di candidatura, l’India ha modificato le specifiche per cercare proposte di produzione di circuiti integrati di 40 nanometri o superiori, più grandi dei più costosi chip a 28 nanometri richiesti in precedenza. Si prevede che il mercato complessivo dei semiconduttori in India crescerà a un tasso annuo del 18,8%, raggiungendo i 64 miliardi di dollari nel 2026. Un piano che potrebbe essere favorito dalla cosiddetta strategia China plus one adottata da diverse aziende internazionali e che porta a delocalizzare parte dei propri investimenti o stabilimenti produttivi in Asia meridionale o nel Sud-Est asiatico per aumentare la copertura contro la vulnerabilità dovuta a una serie di incertezze politiche, economiche e commerciali.
Proprio il Gujarat è destinato a diventare la futura sede della prima “città dei semiconduttori” dell’India. La zona individuata è quella della pianura del Dholera, grande quanto Singapore. L’ambizione di Modi è quella di farla diventare nel tempo una sorta di nuova Hsinchu, la città taiwanese che è considerata una sorta di capitale mondiale del comparto di fabbricazione e assemblaggio dei microchip visto che ospita una serie di colossi tra cui numerosi impianti del gigante Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (TSMC). Non sarà semplice, ma Modi vuole senz’altro provarci. D’altronde, sul fronte interno la sua retorica dell’ascesa indiana passa attraverso diversi canali. A partire dal programma di innovazione produttivo-tecnologica del “Make in India”, che ricorda un po’ il Made in China 2025 tanto criticato dall’Occidente per il suo perseguimento di un’autosufficienza tecnologica. Ma anche dalla simbologia storico-politica: basti pensare che al recente summit del G20 ospitato a Nuova Delhi, Modi si è sempre riferito all’India come a “Bharat”. Si tratta del modo in cui viene chiamato l’immenso Paese asiatico in diverse lingue parlate al suo interno e per il governo nazionalista indù un modo per slegarsi dal passato coloniale britannico. Diventare un grande hub di produzione di semiconduttori, uno dei settori più strategici del contesto attuale e presumibilmente futuro, sarebbe un altro passo fondamentale della visione di Modi. Non sarà facile, così come è semplicistico pensare che l’India possa “sostituire” la Cina. Ma il premier in attesa di terza incoronazione ci proverà.