Privacy weekly | Come ogni venerdì ospitiamo il guest post di Guido Scorza, avvocato e componente del Collegio del Garante per la Protezione dei dati personali. Un viaggio intorno al mondo su tutela della privacy e digitale
Aspettando, in alcuni casi, probabilmente con il fiato sospeso il fatidico 30 aprile per capire se effettivamente OpenAI adempirà alle prescrizioni del Garante e renderà nuovamente accessibile dall’Italia ChatGPT, la settimana che stiamo per lasciarci alle spalle, la ricorderemo, verosimilmente, come quella del calcio di inizio di una delle partite più importanti di sempre nel campo delle regole del digitale europee: la Commissione europea, infatti, ha pubblicato l’elenco delle big tech che, nei prossimi anni, andranno considerate “sorvegliate speciali” nell’ambito del famoso per alcuni e famigerato per altri, Digital service act. Le fortunate – #sischerza si direbbe sui social – sono: Google (con Search, Maps e Play), l’AppStore di Apple, Meta (con Facebook, Instagram e Youtube), il marketplace di Amazon, Microsoft (con Bing e LinkedIn), e poi ancora Twitter, le cinesi TikTok (di proprietà del colosso Bytedance) e AliExpress, Booking, Pinterest, Snapchat, Wikipedia e Zalando.
Ma inutile parlarne oggi perché siamo solo a primo minuto di gioco, la partita sarà lunga e difficile e non mancheranno occasioni per tornare sul tema anche e soprattutto a proposito delle cose della privacy perché le novità in arrivo – e, anzi, ormai tecnicamente arrivate per le più grandi del web – sono importanti: niente pubblicità targettizzata, tanto per dirne una, sui dati particolari e su quelli dei bambini. A sfogliare a ritroso fatti e notizie sulle cose della privacy degli ultimi giorni, tuttavia, c’è un altro argomento che ha tenuto banco: il rapporto non sempre facile e, forse, si può anche dire, spesso difficile tra protezione dei dati personali e informazione. E qui vale la pena ricordare subito e ricordare a tutti che stiamo parlando di due diritti fondamentali, nessuno dei due tiranno, nessuno dei due capace di fagocitare l’altro, nessuno dei due destinato a prevalere sull’altro ma sempre, comunque e necessariamente da bilanciare e combinare nell’interesse delle persone.
Tante le notizie rimbalzate in giro per il mondo sul tema.
A Panama l’Ordine nazionale degli avvocati (CNA) ha chiesto una riforma urgente della legge sulla protezione dei dati preoccupato del fatto che, sempre più di frequente, le regole sulla privacy sarebbero applicate “contro i media” attraverso l’irrogazione di sanzioni volte a tacitare i giornalisti. La scintilla, a Panama, rispetto a un dibattito globale che va avanti da anni è scoccata dopo che l’Autorità nazionale per la trasparenza e l’accesso alle informazioni (Antai) ha multato, per la seconda volta, un organo di informazione, dopo un primo provvedimento contro la Verdad Panamà. Questa volta è toccato al quotidiano La Prensa con una sanzione di cinquemila dollari che, secondo l’Antai, ha violato la legge sui dati personali, pubblicando una fotografia del deputato Benicio Robinson, nell’ambito di un’inchiesta giornalistica sul possesso di quote nelle società di trasporto da parte dei politici. Per utilizzare questa immagine, secondo l’Antai, era necessario avere il permesso di Robinson. In effetti, sotto questo profilo, la disciplina europea sulla privacy riconosce in diversi passaggi l’esigenza di un’interpretazione quanto più “generosa” possibile al cospetto di questioni suscettibili di comprimere la libertà di informazione e il diritto di cronaca.
Ma di informazione, verrebbe da dire, cattiva – e, anzi, pessima – e tutela della privacy e, ancor prima, dignità della persona, in settimana si è parlato anche e soprattutto a proposito di una disumana finta intervista che un giornale tedesco ha deciso di fare e pubblicare al pluricampione del mondo di Formula Uno Michael Schumacher, da anni costretto al ritiro dalla scena pubblica a seguito di un drammatico incidente sugli sci. Il settimanale tedesco non ha trovato niente di meglio da scrivere che intervistare, al posto del campione, un’intelligenza artificiale generativa che si è finta quest’ultimo nel rispondere a una serie di domande di una giornalista. La reazione della famiglia di Schumacher non si è fatta attendere: appuntamento in Tribunale. Frattanto la giornalista autrice dell’intervista è stata licenziata ma il problema resta sul tavolo perché è inaccettabile immolare la dignità della persona sull’altare del profitto e massacrarla solo nella speranza di vendere qualche copia in più.
Ma sempre il rapporto tra dati, privacy e informazione, in settimana, ha tenuto banco anche negli Stati Uniti d’America dove, in un giudizio contro Tesla per un incidente costato la vita a un ragazzo, i legali della famiglia di quest’ultimo hanno depositato un video nel quale Elon Musk, patron tra l’altro della casa costruttrice di automobili diversamente intelligenti, dichiara che le sue automobili sono ormai in grado di guidare in autonomia, garantendo più sicurezza ai loro proprietari. La difesa della Tesla, per tutta risposta, ha chiesto al Giudice di non tenere conto del video che potrebbe essere falso o, meglio, il risultato di un deepfake; un personaggio pubblico come Musk, è la tesi degli avvocati, è oggetto, sempre più di frequente, di questo genere di “falsi d’autore” e non si può, d’altra parte, pretendere che ricordi tutto quello che dice. Il Giudice, a questo punto, si è detta preoccupata perché se chiunque può sottrarsi alla responsabilità delle proprie dichiarazioni sostenendo che la registrazione potrebbe non essere autentica, sono in arrivo tempi duri, per la giustizia. Ma al di là del caso specifico la questione è straordinariamente delicata perché è fuor di dubbio che la linea di confine tra il vero e il falso diventa ogni giorno più sottile e che, ormai, è elevatissimo il rischio che un colpevole la faccia franca in Tribunale sostenendo che la prova che lo inchioderebbe alle sue responsabilità è frutto di un deepfake e che un innocente sia condannato dal ferocissimo tribunale dei social media, per effetto di un deepfake che lo inchioda a responsabilità che non ha.
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