Privacy weekly | Il guest post di Guido Scorza, avvocato e componente del Collegio del Garante per la Protezione dei dati personali. Un viaggio intorno al mondo su tutela della privacy e digitale
Una bella inchiesta del New York Times racconta la storia di Kodye Elyse, 35 anni, tatuatrice, 4 milioni di follower su TikTok e mamma di tre figli. Kodye Elyse, abituata a pubblicare con serenità – leggerezza potrebbe dire qualcuno – le foto dei propri figli online, un giorno scopre milioni di visualizzazioni e commenti ambigui da parte di una serie di sconosciuti sotto un video della sua figlia più piccola che ballava che aveva postato lei stessa nel 2020. L’episodio rappresenta per lei una sveglia che suona in maniera assordante in un momento di sonno profondo. Si rende conto di aver sottovalutato i rischi connessi alla sovra-esposizione dei figli online, anzi di non essersi affatto posta certi problemi e, naturalmente, si sente in colpa per aver esposto i suoi figli a rischi evitabili. Il bello e il brutto, al tempo stesso, della storia di Kodye Elyse è che potrebbe essere quella di molti di noi. Ed è per questo che il pezzo del New York Times merita di essere raccontato. La mamma-tik-toker decide che è arrivato il momento di cambiare registro e si dà da fare per ritrovare, su tutti i suoi account sulle varie piattaforme social, le centinaia di video o foto dei figli pubblicati negli ultimi anni. Li trova e li elimina senza pensarci due volte.
E non basta. Si unisce anche ad un gruppo di TikTokers che incoraggiano i genitori a non pubblicare immagini dei loro figli sui social. Poi, a un certo punto, un colpo di scena. Kodye Elyse scopre PimEyes un motore di ricerca per la ricerca di immagini che sfruttando tecniche di riconoscimento facciale intelligente consente a chiunque di trovare in pochi secondi una foto di qualsiasi persona ovunque pubblicata su internet. Come spesso accade nell’universo digitale, uno strumento straordinariamente utile o un generatore di incubi terrificanti a seconda di come lo si usa. Kodye Elyse decide di usarlo in maniera sana per verificare di aver effettivamente trovato e eliminato tutte le immagini dei figli dal web. Detto-fatto.
Dà in pasto a Pimeyes le foto dei suoi bambini e, a un certo punto, il motore di ricerca le restituisce un risultato per il suo bambino di 7 anni ma non le dice chi e dove l’abbia pubblicata sino a quando Kodye Elyse non accetta di pagare un abbonamento da 29.99 dollari. A quel punto PimEyes le da tutte le risposte che le servono: si tratta di una foto del bambino allo stadio con il papà, finita online perché scattata da un’agenzia fotografica specializzata e pubblicata su un sito di notizie eventi sportive. Nessuno sapeva dell’esistenza di quella foto e, probabilmente, nessuno (umano) avrebbe notato il viso del bambino dietro a una delle porte del campo da gioco ma la foto non era sfuggita a PimEyes. A quel punto Kodye Elyse ha chiesto a PimEyes di de-indicizzare la foto, chiedendo e ottenendo più privacy e più riservatezza per il figlio. Ma quella del bambino non è stata l’unica foto dei figli che PimEyes ha indicato alla mamma. Grazie allo stesso motore di ricerca, infatti, Kodye Elyse ha anche trovato una foto dell’altra figlia che era addirittura utilizzata per promuovere un campo estivo, naturalmente senza che nessuno avesse mai dato alcun consenso. Evidentemente la foto era piaciuta tanto agli organizzatori dell’iniziativa che si erano ben guardati dal preoccuparsi di se e quanto il suo utilizzo fosse corretto, lecito e, soprattutto, nell’interesse della bambina. Insomma, un episodio ha aperto gli occhi di una mamma rispetto ai rischi della sovraesposizione digitale dei propri figli – è il fenomeno del c.d. sharenting – e, poi, curiosità e tecnologie le hanno consentito di redimersi, trasformandosi in uno strenuo difensore della privacy dei suoi figli. Una storia straordinariamente istruttiva per tanti di noi. Ma, perché sia tale fino in fondo, bisogna stare attenti a non confondere PimEyes per quello che non è – o, almeno, non è soltanto: un alleato dei difensori della privacy. Kodye Elyse, infatti, ha usato lo strumento a fin di bene, interrogandolo con le immagini dei propri figli, per verificare che nessuno le utilizzasse in maniera inappropriata o, comunque, tale da esporli a inutili rischi. Ma lo stesso strumento può, naturalmente, essere utilizzato, al contrario, per violare la privacy di chicchessia, bambini inclusi. Basta semplicemente dargli in pasto la foto di qualcuno, magari di un bambino, con l’intento di accedere ad altre foto o scoprire ogni genere di informazioni che lo riguardi, informazioni da utilizzare poi per ogni genere di finalità, nel caso dei bambini, adescamento online incluso.
Insomma, guai a pensare che PimEyes sia quello che non è. E, d’altra parte, sembra esserne consapevole lo stesso proprietario di PimEyes, Giorgi Gobronidze che ha dichiarato che il suo motore di ricerca è stato usato da varie organizzazioni per i diritti umani per aiutare i bambini, ma che, al tempo stesso, è abbastanza preoccupato per un possibile uso distorto del servizio da parte di potenziali malintenzionati. E, però, queste preoccupazioni, almeno sin qui, non sembrano averlo indotto a correggere il tiro e a limitare le possibili forme di impiego distorto o, meglio, di abuso del suo motore di ricerca che sembra, per la verità, interamente progettato e sviluppato su un colossale equivoco: che le foto di miliardi di persone, solo perché pubblicate online, debbano considerarsi a disposizione di chiunque per essere sottoposte a processi di scansionamento biometrico e trasformate in contenuti ricercabili da chiunque assieme allo straordinario carico di informazioni alle quali possono essere collegate. Non è così. Con questa avvertenza, la storia di Kodye Elyse è preziosa e magari potrebbe guidare tanti altri genitori a un pentimento tardivo ma operoso e a iniziare a giocare il ruolo che dovremmo sempre giocare: quello di chi difende la privacy dei propri figli.
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