Nel longform domenicale voliamo a New York e a Roma per raccontare U-Report, piattaforma Unicef che dà voce ai giovani. Una risposta indiretta nei giorni della protesta degli studenti per il caro-affitti. Intervista a Caroline Muhwezi e a Renata Corona di Unicef
“Bisogna ascoltare i giovani”. “I giovani sono il nostro futuro”. Quante volte abbiamo ascoltato queste frasi? Ma quali sono gli strumenti concreti per ascoltarli? Unicef nel 2011 ha creato una piattaforma in grado di interagire con 29 milioni di ragazzi e ragazze tra i 12 ed i 35 anni in 95 paesi del mondo. Si chiama U-Report.
La storia di Caroline Muhwezi
Tutto iniziò in Uganda nel 2011, il paese di nascita di Caroline Muhwezi, attuale global director di U-Report. Internet non era diffuso ma il Paese africano aveva il più alto numero di cellulari nel continente. Nacque così l’idea di creare una piattaforma di messaggistica sociale (via SMS) ed un sistema di raccolta dati sviluppato dall’Unicef, per migliorare il coinvolgimento dei cittadini, informare i leader e promuovere un cambiamento positivo.
Uno dei successi più eclatanti raggiunti dalla piattaforma, riguardò il lancio della campagna di prevenzione contro l’HIV svolta in Zambia, il secondo Paese a aderire a U-Report. Fu lanciato un sondaggio per testare le conoscenze dei giovani sul problema dell’HIV, capire quali fossero le credenze più diffuse, i comportamenti. Alla fine del sondaggio i giovani venivano invitati a effettuare il test dell’HIV. Dopo l’invio del report, si registrò un incremento del 24% dei test. «È stato bellissimo veder crescere questo progetto che abbiamo voluto tenere separato da Unicef» racconta Caroline in collegamento da New York. In effetti sulla piattaforma non si trova alcun logo Unicef, scelta adottata per rendere il dialogo con i ragazzi libero, non istituzionale. In questo modo è possibile trattare argomenti che non necessariamente ricadono sotto le tematiche seguite tipicamente da Unicef.
Caroline Muhwezi è cresciuta in un villaggio nel sud dell’Uganda. Ad otto anni perse la madre e suo padre, medico, la incoraggiò a proseguire gli studi. All’età di quindici anni, tramite la scuola, ebbe l’incredibile opportunità di partecipare ad un dibattito organizzato alle Nazioni Unite a New York da Unicef. Da quel momento si è occupata di sviluppare U-Report prima in Uganda poi in Nigeria. «Noi come coordinamento globale diamo indicazioni di massima sugli argomenti da trattare ma ogni Paese ha l’autonomia per affrontare i temi che ritiene più attuali».
Uno degli argomenti che ha coinvolto trasversalmente più Paesi è stato quello inerente i cambiamenti climatici e i risultati sono stati eclatanti. Su 243.512 intervistati nel mondo, ben il 40% ha riconsiderato l’idea di avere figli a causa della crisi climatica. «U-Report è un’organizzazione non politica ma è indubbio che i risultati dei sondaggi influenzano la politica come è accaduto nelle recenti elezioni in Kenya. I risultati del questionario su cosa pretendessero i giovani dalla politica sono stati ripresi dai media e diventati oggetto della campagna elettorale nel paese africano».
U-Report nel mondo
Ogni Paese che aderisce a U-Report sceglie i diversi argomenti da trattare in autonomia. In Zimbabwe l’ultimo sondaggio tra i giovani ha riguardato il colera. Dai dati si può evincere quanti dei ragazzi usino bagni condivisi e quale sia il livello di conoscenze igieniche. In Sudafrica il sondaggio ha riguardato cinquemila tra ragazzi e ragazze. Il 71% ha vissuto episodi di discriminazione, e, nonostante siano passati trent’anni dalla fine dell’apartheid, il 14% ha dichiarato che il colore della pelle rappresenta ancora una causa di discriminazione.
Cade subito all’occhio che tra i 93 Paesi del mondo ad aver aderito a U-Report, sono pochi gli Stati europei, tra i quali, Francia, Grecia e l’Italia. La spiegazione arriva da Renata Corona, coordinatrice della piattaforma U-Report Italia. «In Europa U-Report svolge un lavoro di raccolta dati, negli altri Paesi anche un servizio attivo». Quando i talebani sono tornati al potere in Afghanistan, la piattaforma locale ha lanciato subito un messaggio agli users per capire come stavano vivendo la situazione. Arrivarono un milione di messaggi. Il 98% si dichiarava maschio per evitare che le donne venissero intercettate e la maggior parte richiedeva dei soldi per lasciare il Paese. La piattaforma è stata utile per fornire aiuto concreto ai ragazzi ed indirettamente anche alle loro famiglie.
Anche la partecipazione varia da Paese a Paese. In Afghanistan, ad esempio, sono 1.6 milioni gli iscritti alla piattaforma, in Italia, dove U-Report è approdata solo nel 2021, sono circa seimila i partecipanti ed il 38% è nella fascia di età 15-19 anni. «Mi ha colpito molto il sondaggio che abbiamo lanciato appena scoppiata la guerra in Ucraina» racconta Renata Corona. La maggior parte dei ragazzi esprimeva ansia per le ripercussioni economiche che avrebbero dovuto subire le proprie famiglie. In quel caso, dopo il sondaggio, U-Report Italia ha organizzato un incontro su Instagram per dare risposte e consigli insieme agli esperti. «È stato interessante un dato emerso da quel sondaggio. Quando abbiamo chiesto in che modo i ragazzi reperissero le informazioni sull’attualità, pochissimi hanno risposto attraverso i media tradizionali, la maggior parte utilizzava Factanza perché ritenuto più imparziale».
L’interazione con la politica
L’obiettivo finale di U-Report è quello di fornire dati ed informazioni ai decision maker affinché anche i giovani vengano ascoltati. Alcuni report sono stati svolti in collaborazione con le istituzioni come quello sull’alternanza scuola lavoro. Il Ministero della Pubblica Istruzione organizzò una tavola rotonda sul tema e vollero partire proprio ascoltando l’opinione dei giovani sull’argomento. «Il risultato fu interessante perché la maggior parte dei ragazzi non capiva perché la scuola dovesse essere professionalizzante». Quel report non fu mai pubblicato. Alcuni dei report sono lanciati insieme ad influencer o gamer come è successo con Pow3r. Per la prima volta Unicef ha approcciato il mondo del gaming per inserirsi nel dibattito: i giochi violenti incentivano la violenza tra i giovani?
«Le risposte aperte ricevute sono state interessanti. Molti osservavano che visto quanti ragazzi giocano ai videogame, doveva esistere una generazione di serial killer, altri dicevano che il gaming era un rifugio dalla vita vera ed emergevano problemi nelle famiglie». Il sondaggio non rimane mai fine a se stesso perché vengono sempre inviati ai ragazzi informazioni e video istituzionali di approfondimento. Spesso vengono organizzate anche live su Instagram insieme ad influencer o esperti per dare seguito al sondaggio e creare un momento d’incontro. Esiste un coordinamento globale che si riunisce una volta al mese per discutere delle proprie esperienze e creare momenti di confronto. «Abbiamo svolto in gran lavoro in questi dodici anni ma ora ci aspettano altre sfide come, ad esempio, utilizzare l’intelligenza artificiale per implementare la piattaforma e renderla accessibile anche ai ragazzi disabili» conclude Caroline Muhwezi.