L’analisi settimanale, curata dalla startup innovativa Storyword, sui temi che hanno tenuto banco sulla stampa estera durante la settimana appena trascorsa
Cento video su YouTube, visti almeno 18 milioni di volte, violavano le norme pubblicitarie di Google (proprietaria di YouTube) nate per contrastare la diffusione della disinformazione sul cambiamento climatico. Questo il risultato, raccontato dal New York Times, emerso dal report del Center for Countering Digital Hate, una ONG che si occupa di monitorare la diffusione dell’odio e della disinformazione online. Non è stata dunque mantenuta la promessa fatta circa due anni fa dal colosso di Mountain View, che avrebbe dovuto interrompere la pubblicazione di annunci pubblicitari presenti in contenuti che negavano l’esistenza e le cause del cambiamento climatico. Non è certo facile calcolare l’intera portata delle bufale che circolano su YouTube, motivo per cui Callum Hood, responsabile della ricerca, sostiene che il grande numero di video individuati sia in realtà solo la punta dell’iceberg. Coinvolti in questa indagine anche grandi brand come Costco, Politico, Calvin Klein, Adobe e Grubhub. Tuttavia, essendo le pubblicità coordinate da Google Ads, le aziende non hanno mai il pieno controllo della situazione e, a volte, si trovano catapultate dove non vorrebbero mai essere. Il paradosso è che, tramite queste inserzioni pubblicitarie, YouTube trae profitto dalla “disinformazione climatica”. “Non fa soldi chi pubblica questi contenuti su Facebook, mentre se qualcuno li pubblica su YouTube ha la possibilità di guadagnare uno stipendio intero con la disinformazione”, ha detto Claire Atkin, co-fondatrice di Check My Ads, un advocacy group che studia la pubblicità online. Michael Aciman, Policy Communication Manager di Google e Portavoce di YouTube, ha detto che l’applicazione delle loro normative in materia non è sempre perfetta e che lavorano costantemente per rimuovere questo tipo di contenuti. Google non è nuova a questi episodi. Secondo un’analisi di NewsGuard pubblicata lo scorso anno, dei siti che diffondevano narrazioni false sulla guerra in Ucraina russa e che traevano profitti dalla pubblicità programmatica, il 64% veniva monetizzato attraverso la piattaforma pubblicitaria di Google.
Basta un tweet per innescare una crisi bancaria
Il crollo di Credit Suisse a marzo e, poco prima, della Silicon Valley Bank (SVB), ha dimostrato che i social media rappresentano un rischio anche nel settore bancario. Foreign Policy scrive che, circa sei mesi prima del fallimento della banca svizzera, un giornalista finanziario della ABC, David Taylor, ha twittato che secondo fonti un’importante banca era sull’orlo del baratro. Il tweet è diventato virale e successivamente iniziarono a circolare voci che la banca in questione potesse essere Credit Suisse, che ha registrato subito dopo un crollo in borsa pari al circa il 12%. Il presidente, Axel Lehmann, ha affermato che i social media e la digitalizzazione hanno “alimentato le fiamme della paura”. In America, invece, SVB è crollata in un tempo record. I clienti in preda al panico hanno svuotato i loro conti e condiviso le proprie esperienze su Twitter e WhatsApp: nel giro di poche ore SVB ha perso 42 miliardi di dollari, quasi un quarto di tutti i depositi. Ieri i clienti ascoltavano i banchieri, oggi cercano informazioni sui social media. Il sociologo britannico Donald MacKenzie sostiene che queste piattaforme non sono solo una “telecamera” sugli eventi, ma un “motore” che li alimenta o scaturisce. Da un recente studio su 5,4 milioni di tweet, condotto da un team di economisti americani, è emerso che i rendimenti negativi delle azioni delle banche si manifestano dopo periodi di intenso dialogo su Twitter. “Perché fidarsi della tua banca quando qualcuno sta facendo un’analisi smart su Twitter?”, sono le parole di Charles-Henry Monchau, Chief Investment Officer della banca svizzera Syz, il quale ha aggiunto che con l’ascesa dei social media il principio del “conosci il tuo cliente” è stato capovolto.
Wikipedia sempre più influente
Anche se il modo in cui opera è ancora un mistero, Wikipedia rimane uno dei siti più visitati al mondo. Non solo. Come riporta Axios, l’enciclopedia online sta acquisendo sempre maggiore influenza poiché sui suoi dati vengono addestrati i nuovi strumenti di intelligenza artificiale. Wikipedia aveva già un ruolo centrale nella ricerca online ma l’avvento dell’AI ha fatto registrare al sito 279 miliardi di utenti unici nell’ultimo anno, con un aumento del 22% su base annua. Tra gli argomenti più ricercati emergono ChatGPT e la serie “The Last of Us”. “Wikipedia è fondamentale per la reputazione online di brand e personaggi pubblici”, ha detto ad Axios Sam Michelson, CEO di Five Blocks. Ma aggiornare o modificare le pagine è complesso, motivo per cui sempre più utenti chiedono supporto a società che curano la reputazione e visibilità online.