L’analisi bisettimanale, curata dalla startup innovativa Storyword, sui temi che hanno tenuto banco sulla stampa estera durante i 14 giorni appena trascorsi
Le Big Tech aprono. Se lo chiede The Economist, in una analisi dell’impatto dell’intelligenza artificiale sulla dimensione di queste aziende. Dopo un rallentamento registrato nel periodo post-lockdown, i colossi digitali sono tornati a correre. Nel primo semestre di quest’anno, Alphabet, Meta e Microsoft hanno incassato complessivamente 106 miliardi di utili operativi, in aumento di 9 miliardi rispetto al primo semestre del 2022. Gli investitori si aspettano che la corsa all’intelligenza artificiale porterà ad un’ulteriore crescita delle compagnie. Anche se le Big Tech devono oggi fare i conti con l’aritmetica: il principale ostacolo alla loro crescita è la loro stessa grandezza. Ed è questa la vera sfida che i colossi digitali dovranno affrontare nei prossimi anni. Per farlo, la strategia di crescita più ambiziosa potrebbe essere entrare in nuovi mercati: non a caso, le Big Tech si stanno calpestando i piedi a vicenda creando una maggiore competizione. Ma non è detto che si tratti di un approccio infallibile: più competizione significa nuove entrate ma riduzione dei margini. La strategia che le aziende metteranno in atto dirà molto delle aziende stesse: un taglio dei costi significa maturità ma anche mancanza di fiducia; la crescita, invece, è sinonimo di fiducia ma forse anche di arroganza.
Big Tech senza limiti?
Giornalisti, bibliotecari e funzionari governativi non sono più i guardiani del sapere, è una conseguenza della rivoluzione digitale che stiamo vivendo. Oggi il loro ruolo viene svolto dalle Big Tech, tramite intelligenza artificiale, chatbot e algoritmi. Nell’ottica del contrasto a questo strapotere, l’Unione Europea sembra essere un passo avanti rispetto al resto del mondo. Il Digital Services Act e il Digital Markets Act impongono (per la prima volta) a queste aziende l’individuazione e il risarcimento dei danni causati dalle proprie piattaforme. Una delle novità più interessanti introdotte da tali disposizioni riguarda l’accesso all’infinità di dati contenuti in queste piattaforme, anche se momentaneamente è riservato ai ricercatori e non ai giornalisti. Ma accedere a quei dati diventa ogni giorno più complesso: per fare qualche esempio, Facebook ha sciolto il team che gestiva CrowdTangle, uno strumento utilizzato da molti ricercatori per analizzare le tendenze e combattere le fake news; Twitter ha limitato in numero di tweet che compaiono nel feed. Gli sforzi dell’Unione europea, secondo il New York Times, non bastano. Per poter parlare di responsabilità delle Big Tech occorre aprire le porte anche ai giornalisti, da sempre in prima linea nel contrasto alla disinformazione. Senza l’accesso ai dati di quelle piattaforme, ci saranno sempre ostacoli nel comprendere la portata e il reale significato di una determinata storia. Come noto, le Big Tech spesso respingono le richieste di trasparenza sostenendo di dover proteggere la privacy dei propri utenti. Il che potrebbe sembrare un paradosso, dato che i loro modelli di business si basano sull’estrazione e sulla monetizzazione dei dati personali dei loro utenti.
La rivincita di Faceboook
Gli algoritmi delle piattaforme social sono sempre stati considerati la principale causa della forte polarizzazione che caratterizza la nostra società. Tuttavia, secondo quanto emerso da recenti studi condotti da ricercatori universitari e analisti di Meta, modificare l’algoritmo di Facebook non risolverebbe il problema. Questo non significa che tale algoritmo sia irrilevante, ma sussistono dubbi sulla capacità di Meta di influenzare le convinzioni politiche delle persone: durante le analisi, i ricercatori hanno notato che eventuali modifiche al feed avrebbero un impatto minimo in tal senso. L’obiettivo degli studi consisteva nell’analizzare come i social media influenzano la comprensione e le opinioni delle persone su notizie, governo e democrazia. Nell’ambito del progetto, i ricercatori hanno modificato i feed di migliaia di persone che hanno utilizzato Facebook e Instagram durante il periodo precedente alle elezioni del 2020, per vedere se ciò potesse cambiare le loro convinzioni politiche, esponendole a informazioni diverse da quelle che avrebbero potuto normalmente ricevere. Ma l’impatto di questa modifica, come riportato dal Washington Post, è risultato minimo. Gli studi tuttavia proseguiranno con un focus sui dati raccolti dopo l’assalto al Congresso ma secondo uno dei ricercatori principali sarebbe opportuno che vengano condotti con una maggiore dipendenza da Meta. «Meta supporta l’indipendenza dei ricercatori, motivo per cui gli accademici esterni avevano la gestione del progetto, l’analisi e la scrittura della ricerca. Abbiamo adottato una serie di misure per garantire che questo processo fosse indipendente, etico e ben fatto», ha affermato Meta in una nota.
La macchina della censura
30, il numero di volte in cui è stata intensificata la censura online in Russia. Il dato emerge da una ricerca di Citizen Lab, dell’Università di Toronto, che si è posta l’obiettivo di quantificare l’entità della censura online in Russia dall’inizio della guerra in Ucraina. I ricercatori hanno analizzato oltre 300 ingiunzioni del governo russo contro Vkontakte, una delle maggiori piattaforme social del Paese, volte a rimuovere account e contenuti contrari al governo. Prima del conflitto, la media era una ingiunzione ogni 50 giorni, secondo quanto riportato dal New York Times. «Questi risultati evidenziano l’estrema sensibilità politica della guerra in Ucraina e la necessità della Russia di controllare meticolosamente l’accesso dei russi alle informazioni riguardanti l’invasione», ha affermato uno degli autori del report. Come se non bastasse, sembra che la propaganda russa si stia diffondendo anche nei videogiochi di tutto il mondo. Su Minecraft, popolare gioco di proprietà di Microsoft, alcuni utenti russi hanno rievocato la battaglia di Soledar, una città dell’Ucraina conquistata dalle forze russe a gennaio, pubblicando il relativo video su VKontakte. Passando anche per le piattaforme in cui si dibatte di videogiochi, da Discord a Steam, la narrazione russa intende un raggiungere un target giovane per persuaderlo sulle motivazioni della guerra.
Media frammentati
Le elezioni americane del 2024 hanno dato vita all’era della frammentazione dei media. Il declino dei canali tradizionali (inclusi Facebook e Twitter) ha fatto migrare il pubblico verso piattaforme di piccola e media dimensione, come ad esempio il Daily Wire o l’anteprima di quella che sarà la nuova media company di Tucker Carlson. E non a caso, scrive Semafor, i candidati trascorrono buona parte del loro tempo a conversare con i nuovi personaggi del panorama mediatico americano, da Shawn Ryan a Clay Travis, raggiungendo centinaia di migliaia di persone. Anche se, alcune stelle nascenti tengono a debita distanza la politica: diversi candidati repubblicani, incluso Trump, hanno cercato, senza successo, di comparire nel podcast di Joe Rogan. Forse è presto per capire l’impatto di questo fenomeno sulla democrazia. Certo è, invece, che la politica nazionale americana risulta un indicatore sempre più rilevante per il futuro dei media, e le campagne che risulteranno vincenti saranno proprio quelle che prima delle altre comprenderanno tali cambiamenti. Lo abbiamo iniziato a intravedere nella nuova strategia digitale di Biden che punterebbe a reclutare un esercito di influencer e creator indipendenti per raggiungere gli elettori più giovani, fondamentali nella sua elezione. Proprio quest’ultimi (età 18-29) nel 2020 hanno preferito Biden a Trump con un margine di 26 punti, e a metà mandato (2022) i Democratici ai Repubblicani con uno di 28 punti.