I criteri diagnostici riflettono conoscenze ormai datate, contribuendo a un forte bias di genere che rende più complesso per bambine, ragazze e donne arrivare alla diagnosi corretta. Con conseguenze importanti per la loro salute mentale.
Per ogni quattro maschi c’è una ragazza autistica. Questo dicono i dati più diffusi sulla prevalenza nello spettro autistico, eppure non sono più attuali: quasi 30 anni fa uno dei primi studi di popolazione già suggeriva un rapporto di 2:1 per la sindrome di Asperger, riproposto nel 2016 dalla ricercatrice Marion Rutherford e i colleghi. A oggi, il dato più aggiornato si assesta su 3:1.
Ma se questa è la ricerca scientifica, a fianco c’è la realtà: c’è un ampio bias di genere che rende difficile per le donne ricevere una diagnosi, a prescindere dall’età. Un esempio? Tra un bambino e una bambina con tratti autistici confrontabili, che si tratti di un modo atipico di socializzare con i coetanei, di forte bisogno di routine o caratteristiche particolari dal punto di vista sensoriale, sarà molto più difficile per la bambina ottenere una diagnosi se non ci sono elementi ulteriori a suggerirla, come una disabilità intellettiva.
“Il primo problema è che, anche dal punto di vista clinico, l’idea di autismo si basa su studi fatti sui maschi e i criteri diagnostici risentono tuttora di quella visione”, spiega a StartupItalia la Dott.ssa Valentina Pasin, Psicologa Coordinatrice di Gruppo Empathie, una equipe multidisciplinare con sede in provincia di Vicenza dedicata alla diagnosi e trattamento dell’Asperger e delle altre neuroatipicità, nonché Responsabile del Servizio di Psicologia e Neuropsicologia dello Spettro Autistico presso il Mi.CAL di Milano.
“Molti psicologi escono dall’università avendo studiato il lavoro di Hans Asperger e Uta Frith, vecchio ormai di decenni, e dati obsoleti come la prevalenza di 8:1. Non vengono trasmessi messaggi aggiornati e tanti iniziano a lavorare con l’idea che, dovessero confrontarsi con l’autismo, si troverebbero quasi sicuramente davanti un maschio”.
Per questo motivo, se uno psicologo o psichiatra incontra una paziente – o la sua famiglia –in cerca di supporto, la prima lampadina che si accende non sarà quasi mai l’autismo. Tra le diagnosi più comuni che molte donne nello spettro ricevono nel corso della vita ci sono il disturbo borderline di personalità, il disturbo bipolare, la depressione, il disturbo d’ansia, il mutismo selettivo o un disturbo alimentare. Possono essere errate oppure parziali, ad esempio: serviranno ulteriori studi per comprendere a fondo questo legame, ma si stima che su dieci persone con una diagnosi di anoressia almeno due abbiano tratti autistici.
Cercare di passare inosservate
Con sforzi emotivi e cognitivi importanti, “molte donne nascondono i propri tratti autistici fin da piccole in modo da passare ‘inosservate’ [a questa abilità è stato dato il nome di masking o camouflaging, in italiano camaleontismo sociale] e non è detto che, nei primi colloqui clinici, condividano alcuni punti chiave. A tante ho chiesto se avevano raccontato quanto detto a me anche allo psicologo precedente, sentendomi rispondere di no perché ‘non era stata fatta la domanda’ o perché si vergognavano”.
Il tentativo di mimetizzarsi, anche imitando gli altri nelle interazioni sociali, non è una caratteristica solo femminile e può essere presente in ogni genere. Per le donne, tuttavia, emerge in modo particolarmente incisivo – forse a causa delle differenti pressioni sociali cui sono soggette fin da piccole: “sii gentile, sii adeguata…” – ed è una possibile spiegazione per le diagnosi tardive o errate.
Ci si interroga parecchio sul tema, con anche studi che sottolineano come sia importante “non imporre norme di genere e stereotipi associando il masking a un ‘fenotipo autistico femminile’”. Tra le persone nello spettro, per di più, c’è una minor identificazione sociale rispetto a un genere, oltre a una minor gender self-esteem (quanto positivamente o negativamente si guarda al proprio gruppo di genere); per tante donne autistiche, in particolare, emerge l’identificazione con i propri interessi e diventa marginale quella rispetto al genere di appartenenza.
“C’è molta critica sull’idea di un profilo femminile, ma io la ritengo una questione culturale e non clinica” commenta la Dott.ssa Pasin. “Il clinico si troverà di fronte una donna, che potrebbe essere in difficoltà proprio perché vive in una società che le fa determinate richieste, ancora oggi diverse tra i generi”. Queste richieste possono affondare le proprie radici negli stereotipi, ad esempio l’idea che le donne diano sempre molto valore alle relazioni sociali, e le aspettative della società associate a un “ruolo di genere” restano per loro più elevate. Al contempo “non è possibile ignorarle. Parlare di un fenotipo tipico delle donne non significa dire che sia esclusivo, né trovarsi d’accordo con tali aspettative: significa spiegare ai clinici di non fermarsi all’idea di autistico maschio e incoraggiarli ad ampliare gli attuali criteri diagnostici”.
Se poi il ruolo del masking apparentemente maggiore nelle donne “sia dovuto a risorse cerebrali differenti, a fattori culturali o entrambi, questo ancora non lo sappiamo. Ma i pazienti con cui noi clinici parliamo vivono in questa società, e il nostro compito è quello di fornire loro supporto per problemi quotidiani che hanno una base sociale e culturale”.
Un difficile percorso diagnostico
Le testimonianze di molte parlano di incontri frustranti con i professionisti della salute, che escludono subito l’autismo basandosi su conoscenze non aggiornate. Ad esempio l’idea che le persone nello spettro non guardino mai l’interlocutore negli occhi, che non provino empatia o emozioni intense, che non siano in grado di creare rapporti affettivi e amicali stabili o di mantenere un posto di lavoro.
Per quanto riguarda le diagnosi che molte donne autistiche ricevono nel corso della vita, come il disturbo bipolare o un disturbo d’ansia, “io credo che tanti clinici si rendano conto che manca qualcosa, ma è probabile sembrino loro le più adeguate di fronte a vite sregolate, difficoltà nel condividere le proprie emozioni, a volte aggressività o comportamenti sfidanti, momenti molto positivi alternati ad altri del tutto negativi. Non necessariamente sono diagnosi sbagliate, ma quantomeno sono parziali e manca proprio l’aspetto più importante, quello identitario: posso essere autistica e depressa, o autistica e avere un disturbo d’ansia”, spiega la Dott.ssa Pasin.
Secondo le stime, il 20% degli adulti autistici ha un disturbo d’ansia contro circa il 9% degli adulti non autistici, e la probabilità di sperimentare la depressione nel corso della vita è quattro volte maggiore. A provocarli non è l’essere autistici in sé, ma il vivere una quotidianità che prosciuga le energie poiché tarata su un funzionamento neurologico che non è il proprio.
“Su queste diagnosi o ipotesi diagnostiche non corrette si basano purtroppo percorsi di psicoterapia che non sono in grado di aiutare davvero la persona; non permettono di capire il motivo delle difficoltà incontrate, il perché alcune cose semplici e riposanti per molti – come socializzare –possano essere complesse e stancanti per una persona Asperger, o ancora cogliere come i motivi alla base di un disturbo alimentare non siano di tipo relazionale ma sensoriale e via dicendo”. A volte possono risultare deleteri, proprio perché non colgono realmente i punti di forza e le difficoltà.
“Lo psicologo potrebbe proporre inconsapevolmente delle strategie terapeutiche che vanno contro il funzionamento autistico: ad esempio, se la persona racconta che fatica a trovare nuovi amici, può incoraggiarla a fare esperienza dando come obiettivo quello di andare al bar ogni sabato sera e cercare di conoscere qualcuno. Oppure potrebbe richiederle di immaginare come sarà tra 10 anni, o come si comporterebbe in determinate situazioni, un esercizio di astrazione che può risultare impossibile per alcune persone Asperger. Altra cosa che succede spesso è che la persona fatichi a spiegare le proprie emozioni e il terapeuta pensi si tratti di un blocco emotivo, invece di ipotizzare la presenza dell’alessitimia, spesso associata al funzionamento Asperger”.
La complessità dell’autismo, insieme alla necessità per i clinici di essere al passo con le ultime novità scientifiche, complica la situazione e rende necessario – per arrivare a una diagnosi – un confronto lungo e approfondito. Che includa, se possibile, la testimonianza di una persona vicina come un genitore, un’amica, un partner, per incrociarla con il racconto in prima persona. “Negli incontri le pazienti mi raccontano il loro vissuto nei minimi dettagli, per esplorare tutte le tematiche rilevanti”, dice Pasin.
Si tratta anche di temi che nei manuali diagnostici restano secondari, ma nella ricerca scientifica e nel quotidiano sono ormai considerati cruciali. Ad esempio l’alessitimia, ovvero il faticare a riconoscere le emozioni proprie e altrui, oppure una sensorialità ipo- o iper-. “Il fatto che alcuni rumori, luci, consistenze, sapori oppure odori risultino intollerabili”, spiega la Dott.ssa Pasin. “O ancora avere particolarità enterocettive: non accorgersi di essere esauste, non sentire o non riconoscere la sensazione di fame o sete, avere una percezione alterata del dolore”.
“La diagnosi non è strumentale ma comportamentale, quindi richiede una forte preparazione clinica”, aggiunge la Dott.ssa Pasin. “Il mio modo di fare una valutazione oggi non è quello di sei mesi fa: io credo che fare il clinico significhi essere aggiornati, partire dalle linee guida condivise e omogenee di un test e usarlo per esprimere poi il proprio giudizio clinico che resta la parte fondamentale di una valutazione. Questo non deriva dai soli punteggi dei questionari somministrati ma è fatto di esperienza, di confronto con i colleghi, lettura di articoli scientifici aggiornati e, importantissimo, dal dialogo con le persone”.
Riconoscere e supportare le donne autistiche
Per fornire un supporto a psicologi, psichiatri ed educatori non specializzati in autismo esiste un utile strumento di screening, il Girls Questionnaire for Autism Spectrum Condition, del quale la Dott.ssa Pasin ha curato la traduzione italiana. Il questionario si concentra su cinque macro-aree e sulle peculiarità che caratterizzano le donne autistiche in base alle conoscenze più recenti: gioco e immaginazione, energie investite nel nascondere i tratti autistici, sensibilità sensoriale atipica, peculiarità e difficoltà nella socializzazione, interessi nel corso della vita (spesso tipici di età più matura o distanti da quelli che gli stereotipi di genere considerano femminili).
“Questo questionario, uno screening sotto forma di intervista, è pressoché sconosciuto in Italia”, commenta Pasin. “Si può fare a una donna quando si suppone abbia senso indirizzarla verso un percorso diagnostico specialistico, penso ad esempio all’utilità che potrebbe avere come strumento di screening nei centri dedicati ai disturbi alimentari, ma per somministrarlo correttamente serve una formazione almeno di base sull’autismo femminile”. E ne varrebbe la pena perché, secondo una valutazione recente, permette di discriminare tra donne autistiche e non con alta precisione: su un campione di oltre 670 donne, 350 delle quali nello spettro, ha identificato l’80% di loro.
Nel caso di bambine e ragazze, le componenti sociali che fanno spesso aumentare l’attenzione di genitori o insegnanti con i maschi sono meno evidenti. “Seguo bambine dai 6 anni in su e lo vedo spesso: emerge meno perché investono molte energie nel nascondere i propri tratti autistici. Deve essere qualcuno di esterno a cogliere la stanchezza, la frequente ansia per le prestazioni scolastiche e la socialità o gli aspetti sensoriali – che di rado vengono riconosciuti come tali –. Ad esempio la selettività alimentare, o ‘non vuole indossare i vestitini più stretti, non sopporta determinati tessuti’. O ancora, mamme e papà raccontano ‘dopo la scuola torna e deve stare chiusa nella sua camera per un’ora immersa nei suoi interessi, altrimenti si agita moltissimo. I fratelli non lo fanno’”
Molte donne adulte, invece, si avvicinano alla diagnosi dopo che l’ha ricevuta un figlio perché ripercorrono la propria vita con una nuova chiave di lettura. “Questo capita molto spesso”, conferma Pasin. “Altre arrivano da me perché si sono bloccate negli studi universitari e non si spiegano il perché, o faticano a gestire la quotidianità di un lavoro, che risulta loro estenuante mentre per i colleghi non lo è. O ancora sono insegnanti che hanno in classe ragazzi autistici, e vi si riconoscono”. Nel caso sentano il bisogno di un supporto si intraprende un percorso di psicoterapia. “Ma qualcuna già con la diagnosi cambia molto della propria vita, perché potersi finalmente riconoscere è di per sé un momento terapeutico”. Con il quale si trova un senso di appartenenza, entro una comunità di persone simili a sé, e una visione più positiva della propria identità.
Quanto siamo vicini, dunque, a una visione più moderna dell’autismo che veda anche le donne? “Serve un cambiamento importante nella formazione dei clinici, che gradualmente stanno capendo che autismo (o Asperger) non è sinonimo di maschio appassionato di informatica che non esce di casa, anche se molti colleghi mantengono questa visione”, risultato anche della rappresentazione stereotipata dell’autismo in molti libri e film. “Non è un passaggio irrispettoso o inutile far loro presente che esistono tanti modi di essere autistici, così che di fronte a una donna che lavora e ha una relazione stabile non escludano a priori possa essere nello spettro. La chiave è la quantità di energia che queste donne devono investire nella vita quotidiana e che le porta spesso a essere depresse, ansiose, ad avere attacchi di panico come conseguenze di una vita tarata su un funzionamento che non è il loro. Siamo in una fase di passaggio, in continua evoluzione, dall’idea di autismo come si intendeva decenni fa a una nuova che tenga finalmente conto delle tante intersezioni presenti”.
Nota: Nonostante siano stati introdotti diversi anni fa, i 3 livelli dell’autismo (descritto in base alla necessità di supporto lieve, moderata o severa) non sono entrati a far parte del linguaggio quotidiano. Per questo nell’articolo viene impiegato anche il termine “Asperger”, non più presente nei manuali diagnostici ma che resta ampiamente usato nel linguaggio comune e porta con sé una forte componente di appartenenza.