Quante informazioni raccolgono i nostri smartphone, elettrodomestici, autoveicoli? Tantissime. E spesso a nostra insaputa. E la privacy, chi la tutela? Per questo nell’era degli oggetti connessi, dopo quello bancario, forse possiamo già parlare di “segreto tecnologico”
Vivere nell’era dell’Internet of Things, dove tutti gli oggetti, o meglio dispositivi, sono collegati alla rete e tra loro, vuol dire anche vivere nell’era dei dati. Milioni, miliardi di informazioni che ogni giorno questi oggetti raccolgono, anche quando siamo convinti di non usarli. Sanno tutto di noi, conoscono le nostre abitudini, i nostri dati biometrici, sanno se, quando e quanto ci muoviamo, dove andiamo, con chi (se usiamo i social) interloquiamo o chi incontriamo più spesso.
Così la tecnologia controlla le nostre vite
E’ l’altra faccia della medaglia della tecnologia. Una tecnologia che negli anni si è evoluta per essere sempre più presente nelle nostre vite, e che tanto è più utile quanto più riesce a sapere di noi, per “vestirci” ogni giorno come un abito su misura.
Tant’è che ora una delle questioni più dibattute è quella della privacy. Ricordate quando, lo scorso anno, l’Fbi intimò ad Apple di “sbloccare” l’iPhone del killer (dell’Isis, dicevano) autore della strage di San Bernardino? Fù una delle polemiche più aspre della storia recente, con un’azienda, Apple, che si rifiutò di sbloccarlo (dissero che è impossibile), e l’agenzia investigativa federale che comunque “hackerò” quello smartphone perché ritenuto fondamentale non solo al buon esito delle indagini su quel crimine ma anche per ricostruire la rete dell’attentatore e scongiurare altri potenziali attacchi.
Sempre riguardo l’iPhone, una storia che commosse il mondo era quella del papà che scrisse ad Apple per chiedere di poter accedere al dispositivo del figlio, morto, perché lì c’erano gli ultimi ricordi insieme.
Il caso dell’Amazon Echo che registra tutto (proprio tutto)
E sempre negli Usa, lo scorso dicembre, è iniziato un tira e molla tra la Polizia dell’Arkansas e Amazon, poiché dopo aver già estratto i dati raccolti dalla caldaia (smart) di un’abitazione dove è stato commesso un delitto (notarono un anomalo consumo di acqua alle tre di notte, forse per lavare il sangue dell’uomo ucciso, Andrew Bates), ora gli investigatori vogliono entrare in possesso delle registrazioni dell’assistente domestico Amazon Echo, che come forse pochi sanno, ha i microfoni sempre attivi. Microfoni che registrano l’audio dell’ambiente dove è posizionato. Anche quando non lo usiamo: lo scopo è quello di captare eventuali comandi da inviare agli elettrodomestici quando vengono pronunciate alcune parole chiave.
Registrazioni uguale informazioni, che passano anche dai server cloud di Amazon che elaborano le richieste dei singoli utilizzatori, “imparando” anche a venirgli incontro. Il problema è che, come ogni tecnologia, non è perfetta e spesso vengono registrate e inviate ai server di Amazon parole e informazioni all’insaputa dell’utente.
Perché si puó già parlare di “segreto tecnologico”
Inutile dire che, come Apple, anche il colosso di Jeff Bezos, si è rifiutato di fornire i dati raccolti, per una ragione sempre più politica che commerciale: difendere la privacy degli utenti vuol dire non rompere il vincolo di fiducia che, nell’era dell’IoT, si instaura tra vendor tecnologici e compratori. Io fornisco a te un oggetto che diventa sempre più “personale”, raccolgo molti dati (che spesso uso per profilazione e marketing, anche se a te utente non lo dirò mai), ma della tua vita solo io, la tua azienda, so tutto. Un po’ come il segreto bancario.
Ecco, la questione è proprio questa: siamo di fronte all’affermazione, sempre più crescente, di una sorta di segreto tecnologico. E probabilmente non è poi così lontano il giorno in cui saranno chiamati a “testimoniare” in tribunale frigoriferi, automobili, orologi e televisori.