In collaborazione con |
L’informatica unisce una tecnica rigida a una nota creativa costante: il racconto di Monica Franceschini, Head of big data in Engineering
Donna, mamma e Head of Big data practice in una grande azienda hi-tech e in un mondo in cui, secondo lo studio di Boston Consulting Group “What’s Keeping Women Out of Data Science 2020”, solo il 15% dei professionisti della data science è di sesso femminile.
Monica Franceschini aveva una vena artistica ma con un padre ingegnere e una madre dottoressa in matematica non poteva che seguire una strada scientifica: “Non volevo abbandonare la mia aspirazione creativa, amavo anche coltivare il contatto umano. Così ho lasciato ingegneria elettronica per ingegneria informatica, che consente di applicare le materie scientifiche alla creazione di qualcosa di concreto. Fin da subito mi è piaciuto programmare per veder nascere un sito web o altro. L’ingegneria informatica unisce l’aspetto razionale delle materie stem alla concretezza della vita quotidiana”.
Una carriera iniziata con Java
Come è iniziata la tua carriera?
Sono in Engineering (multinazionale italiana del settore IT con più di 10.000 dipendenti, ndr) da 19 anni e ho iniziato facendo la developer. Programmavo siti web con java: creare qualcosa e vederlo in funzione mi ha tenuta attaccata con piacere a questo lavoro. Dopo una lunga carriera come tecnica mi sono sposata e ho avuto due figli. Ed è proprio da mamma che ho deciso di applicarmi di più e offrire un contributo maggiore all’azienda nel mondo dei big data. Ero ammaliata dalla possibilità di catturare il dato e trarne degli approfondimenti per la realtà.
Ora in cosa consiste il tuo lavoro?
Sono a capo di un gruppo di ricerca e innovazione che ha il compito di portare in azienda tecnologie innovative in ambito analisi dei dati. Si tratta di 25 risorse dedicate, tutti giovanissimi e molto bravi, circa un terzo di loro sono ragazze. Mi occupo del confronto con i clienti e di azioni di presales.
Hai abbandonato la parte tecnica?
Assolutamente no. Mi occupo sempre di architetture tecnologiche del mondo big data e del cloud. Confeziono la proposta architetturale in sede di gara e monitoro tutto l’ambito che presiediamo. Il tutto in collaborazione con il settore Advance analytics, in cui lavorano molte donne, e quello che si occupa di datawarehouse e business intelligence. Il nostro gruppo disegna la soluzione, la progetta, si occupa di configurare i servizi dei cloud provider e le pipeline elaborative dei dati. Alimentiamo e codifichiamo le pipline di acquisizione del dato e del suo trattamento nella piattaforma e li esponiamo verso l’esterno in maniera efficace.
Essere donna, in un settore così maschile ti ha mai penalizzata?
All’inizio è difficile affermare la propria esperienza e le proprie capacità tra i colleghi, c’è diffidenza. Dopo vent’anni di carriera e dopo aver raggiunto una posizione riconosciuta questo non accade più. Ma oggi le cose stanno cambiando.
L’informatica è creativa
Purtroppo, però, ancora 81 studentesse su 100 definiscono questa professione come troppo competitiva. Come incoraggeresti una giovane donna ad affrontare un percorso di data science?
Prima di tutto raccontandole che il nostro è un mestiere basato su dati reali e matematici ma che è anche molto creativo. E che è una strada piena di stimoli, che ti obbliga a studiare e scoprire sempre cose nuove. C’è molto codice, è vero, ma la creatività conta.
Qual è la formazione migliore per entrare nel tuo settore?
Fondamentale è tenere un piede ben saldo nel mondo materie scientifiche e scegliere un percorso di scuole solide per avere la possibilità di cambiare strada. Inoltre è importante creare una contaminazione tra competenze. Per quanto riguarda il corso di laurea da intraprendere il migliore è ingegneria informatica. Ed è vitale essere flessibili: con la corsa delle tecnologie è fondamentale avere basi solide ma anche reinventarsi continuamente.