Il 55enne stellato modenese, impegnato nei progetti dei refettori sotto la sigla Food for Soul, a tutto campo su hi-tech, solidarietà, ruolo dei cuochi e cucina del futuro
Massimo Bottura è probabilmente lo chef italiano più noto al mondo. Sua è l’Osteria Francescana di Modena, primo ristorante italiano – tre stelle Michelin – ad aggiudicarsi il vertice della celebre top 50 del mensile britannico Restaurant, la classifica della ristorazione mondiale stilata ogni anno per scovare il meglio a ogni latitudine. Scettro poi perso quest’anno. Alfiere della cucina molecolare dopo l’illuminazione del catalano Ferran Adrià – ma ormai parla di cucina territoriale “vista a 10 km di distanza” – , grande comunicatore, allievo di Georges Cogny e Alain Ducasse, con cui ha studiato a Montecarlo, il 55enne ha visto ultimamente schizzare la propria notorietà in virtù di una straordinaria impresa e di un paio di documentari distribuiti su Netflix.
L’impresa è ovviamente il progetto del Refettorio ambrosiano, ideato con la Caritas in occasione dell’Expo milanese del 2015 e poi divenuto prototipo da replicare in diversi quartieri complicati in molte città del mondo sotto il cappello Food for soul. Si tratta, per chi ancora non lo sapesse, di un ex teatro nel quartiere Greco di Milano contaminato dall’arte, dal design e in generale dalla bellezza. Luogo d’accoglienza non solo per gli ospiti ma anche per chi presta opera di volontariato, compresi gli chef stellati che, periodicamente, vi si alternano ai fornelli. Di posti simili, nati per nutrire e al contempo per combattere lo spreco di cibo (un terzo di ciò che viene prodotto ogni anno viene buttato) ce ne sono ora diversi, a partire da Londra passando per la Ghirlandina di Modena, Bologna (dove collabora con la storica mensa dell’Antoniano) e Rio de Janeiro. Hanno coinvolto 210 chef, 600 volontari e servito oltre 17mila pasti.
I documentari, invece, sono la puntata dedicata dalla serie Chef’s Table alla sua Osteria Francescana – a cui, nel 2011, si è aggiunta Franceschetta58 – e Theater of Life, che racconta appunto la scommessa del Refettorio ambrosiano e di una lotta allo spreco che passa dalla solidarietà e dall’appagamento estetico.
Abbiamo incontrato Massimo Bottura nel corso dell’Ifa, la più importante fiera europea delle nuove tecnologie, dove ha partecipato a un laboratorio organizzato da Grundig. L’azienda tedesca, controllata da una multinazionale turca, sostiene infatti i progetti di Food for Soul da due anni nei refettori aperti in tutto il mondo. Con lui abbiamo parlato di cucina e tecnologia, dei cuochi del futuro, di un mondo sempre più spaccato fra opulenza e disperazione in cui il cibo deve tornare a farsi nutrimento per l’anima oltre che per il corpo.
Come ti trovi in questo ambiente tecnologico, un po’ folle e compulsivo?
“Mi trovo molto bene, molto a mio agio. Ho sempre pensato che il sogno è ciò che ci guida. Se lo puoi sognare lo puoi fare. Chi poteva pensare, fino a pochi anni fa, a un semplice frigorifero. Adesso pensi a un frigorifero che ti dà luce verde o luce rossa sui prodotti che conserva. O a una lavatrice che mette l’etica affianco dell’estetica realizzata attraverso il riciclo della plastica. Una follia. Eppure questa azienda è arrivata a Modena e ha voluto porsi vicino a Food for Soul, all’idea nata durante l’Expo che attraverso la bellezza in ogni senso si costruisca la dignità delle persone. Più bello di così non si può”.
Quali altri refettori arriveranno nel mondo?
“Sono in cantiere altri quattro refettori sicuri oltre a quelli già operativi ogni giorno da Milano a Rio de Janeiro fino al refettorio Felix di Londra”.
Coinvolgi sempre altri colleghi molto famosi nei progetti: come partecipano concretamente?
“La quotidianità è gestita da chi fa volontariato. Chef e colleghi sono molto più coinvolti dall’aspetto culturale del progetto, cioè nel mostrare al mondo che ciò che si crede sia cibo sprecato è in realtà un “ordinary ingredient”, ingredienti come gli altri. Un pomodoro troppo maturo, un po’ di pane secco, una zucchina imperfetta. Prodotti che ogni nonna ha usato per tutta la vita. Ciò che per noi non ha senso è la mentalità di questi ipermercati che ti mostrano sui videowall le zucchine tutte fantastiche, una uguale all’altra. I grandi cuochi devono dare l’esempio. Fra l’altro, a novembre uscirà Bread is God, un libro che raccoglie 165 ricette nate proprio all’interno del refettorio di Milano, usando quegli ingredienti recuperati che sarebbero finiti al macero”.
La tecnologia, in questo ambito, è di aiuto?
“Grandissimo. Sottovuoto, shock freezer, basti pensare alle tante innovazioni. La tecnologia ci ha aiutato a mangiare meglio e in modo più sano. Serve a guardare il passato in chiave critica e non nostalgica”.
Questi dispositivi potenzieranno il ruolo dello chef in cucina o lo limiteranno?
“Lo aiuteranno. Il ruolo dello chef è quello di gestire la brigata, quello del cuoco le singole preparazioni. Quindi aiuteranno soprattutto il ruolo del cuoco. Per un cuoco italiano sarà un rapporto particolare, perché certo avrà bisogno della tecnologia ma dovrà cercare di gestire l’irrazionale. Viceversa un cuoco giapponese, che tende a seguire pedissequamente le regole, potrà arricchirsi ancora di più con l’uso di certe macchine”.
Quindi nel mondo della cucina la tecnologia non ruberà posti di lavoro, come si sente dire da più parti e per molti altri settori?
“Non sono preoccupato. Continuo ad assumere dei ragazzi e continuiamo ad aumentare nella nostra brigata. Dormo tranquillo”.
Questo ruolo di uno chef evangelizzatore, impegnato e coscienzioso, esisteva o è una novità degli ultimi anni?
“Non lo so. Non c’ero io. Forse quarant’anni fa non c’era neanche un cuoco con cultura, c’era una persona che diventava cuoco perché non aveva voglia di studiare. Oggi essere cuoco è un ruolo completamente diverso, che non può limitarsi alla cucina. Lo chef deve fare ben di più. Ha una grande responsabilità. Tutte le persone coinvolte in Food for Soul si sono per esempio rese conto che ricevevano più di quanto davano. Il cuoco del futuro è pronto sia a misurarsi con l’innovazione che a mettere a frutto questo rapporto per la comunità”.
Come reagiscono le persone all’esperienza dei refettori, cosa sono diventati per i territori?
“Nei refettori si fa qualcosa che va oltre il servire pasti a persone bisognose. Mettiamo a disposizione tempo e creatività per combattere lo spreco. La carità la fanno i volontari nella quotidianità. Le persone che vivono questa esperienza in un ambiente meraviglioso, e per questo ho bisogno di artisti e designer, raccolgono il messaggio in modo istantaneo. Una signora di 92 anni, al primo giorno di apertura a Londra, ci ha per esempio spiegato di poter finalmente morire felice dentro la sua comunità dopo aver visto un posto simile. Sul New York Times due persone, ospiti a Rio de Janeiro, hanno detto di essersi sentiti trattati da esseri umani per la prima volta. Meraviglioso”.
Dici che non fate carità. Ciononostante questo approccio può costituire un modello futuro per il settore?
“In fondo è già così. Ci sta contattando gente da ogni parte del mondo. A Salonicco, in Grecia, c’è per esempio un campo per tremila rifugiati dove ci hanno chiesto di fare qualcosa di simile. La Fondazione Rockfeller ci ha dato un finanziamento per studiare un modello simile che possa espandersi sul larga scala. Insomma, è nei piani”.