Il nostro dossier di marzo è dedicato ai semiconduttori nell’industria e nella geopolitica. In questa partita gioca anche l’Italia. Ma chi avrà la meglio tra Washington e Pechino? I nostri articoli e il meglio dalla stampa internazionale
Nel racconto dei trend che stanno investendo il mondo della tecnologia capita spesso di imbattersi in eventi, protagonisti, scontri e alleanze che potrebbero sorreggere la sceneggiatura di una saga o una serie tv. Ci è successo con il dossier su ChatGPT (che potete ritrovare a questo link) in cui vi abbiamo presentato la corsa all’oro dell’AI: in gara ci sono Stati, governi e tutte le Big Tech. Con questa nuova edizione del nostro format andiamo a esplorare un altro filone, salito in cima al dibattito pubblico a seguito della pandemia. Stiamo parlando dei chip, dei semiconduttori che albergano sotto la scocca di tutti gli apparecchi tecnologici. Se già la dipendenza da questi oggetti raggiunge un tale livello di complessità nella quotidianità dei singoli, provate a elevarla alla competizione tra paesi. Potrebbe definire nuovi equilibri globali ancora tutti da definire. E l’Occidente non ha la vittoria in tasca.
Uno stabilimento Intel negli Stati Uniti
Di che chip parliamo
L’industria dell’elettronica, dell’informatica e delle telecomunicazioni deve il proprio peso economico alla ricerca, allo sviluppo e all’industrializzazione dei semiconduttori. Si tratta di circuiti elettronici che nei decenni le aziende hanno miniaturizzato aumentandone in maniera esponenziale la velocità e l’efficienza. Uno dei chip più noti è il Cpu, l’unità centrale di calcolo che si potrebbe definire una sorta di microprocessore generalista. Questi sono i gioielli che rendono performanti la tecnologia che abbiamo in tasca, al polso, in garage, in casa. E ci siamo tutti resi conto di quanto ne fossimo dipendenti dopo i lockdown, la chiusura delle fabbriche e le tante crisi che hanno ingessato la supply chain negli ultimi anni.
Cina e Usa
Nella partita dei chip non giocano soltanto i consumatori. La tecnologia senz’altro ricopre un ruolo fondamentale nelle nostre vite e non è probabile si possa tornare indietro. Se allarghiamo lo sguardo, però, è un’altra la partita che si sta giocando. Chip significa competenze, hardware, ma anche industria (bellica compresa). Hanno dunque senso le mosse degli ultimi anni tra le due sponde del Pacifico: gli Stati Uniti di Biden, in continuità con la presidenza di Trump, hanno reso ancora più tesi i rapporti con Pechino. Il Chips and Science Act approvato negli USA vale 52 miliardi di dollari in incentivi. E i piani puntano a costruire fabbriche di chip sul suolo americano, esattamente come sta accadendo nel segmento automotive con gli aiuti dell’Inflation Reduction Act.
La Cina, che al momento non minaccia gli USA in fatto di produzione hardware, si sta muovendo in un’ottica di autosufficienza. Obiettivo quasi impossibile da raggiungere in un’industria così diversificata e complessa. Ma il piano Made in China 2025, risalente al decennio scorso, punta a rendere la manifattura del paese un’eccellenza globale in vari ambiti, compreso quello dei chip. Sul piatto Pechino ha messo 1,4 trilioni di dollari con un piano pluriennale i cui frutti ancora si devono vedere. Sul territorio cinese sono oltre 90 gli le chip farm in cantiere o da poco entrate a regime. Quanto peseranno sulla bilancia?
Nel frattempo la pioggia di investimenti ha già innaffiato i semi di una nuova geografia tech, che tra qualche anno vedrà sbocciare nuovi stabilimenti. Negli Stati Uniti il colosso coreano Samsung (che intanto spenderà 230 miliardi di dollari in Corea del Sud per produrre chip) ha annunciato un investimento da 17 miliardi di dollari e a beneficiarne sarà Taylor, una città del Texas. Nel frattempo Biden ha festeggiato un altro annuncio importante nel 2022: TSMC, ovvero il più importante produttore di chip di Taiwan, investirà 40 miliardi di dollari in Arizona per costruire la sua seconda fabbrica di chip (al momento non esistono deal di queste proporzioni nello Stato americano). E l’americana Intel? Sta sondando piani anche all’estero, alzando la posta in Germania per ottenere più sussidi governativi in cambio di uno stabilimento a Magdeburgo e tiene col fiato sospeso perfino l’Italia.
Taiwan
L’hanno definita l’isola dei chip. Un paese che dalla metà del secolo scorso è vista come una provincia ribelle dalla Cina continentale, e come un alleato strategico per gli USA. Nel frattempo ha costruito il proprio know how tecnologico investendo nell’industria. La già citata TSMC, acronimo di Taiwan Semiconductor Manufaturing Company, è il principale produttore di semiconduttori al mondo, nonché la società asiatica più capitalizzata del pianeta: il suo valore di mercato è di 520 miliardi di dollari, cifra che la pone come 13esima a livello globale. Se guardiamo all’industria dei chip, il colosso controlla il 60% della fase di fabbricazione e assemblaggio (Samsung, che è tra i principali competitor, detiene il 13%). Da sola TSMC garantisce il 20% del PIL di Taiwan.
Bastano queste semplici cifre per capire la posta in gioco non soltanto quando si parla di crisi della supply chain e carenza dei chip. Il tema dei semiconduttori ha assunto una rilevanza vitale per l’economia globale dopo lo scoppio della guerra in Ucraina e le riflessioni degli osservatori sulle prossime mosse cinesi. Alla luce dell’invasione russa, quanto è vicina o più probabile una campagna militare cinese per riannettere l’isola di Taiwan? La risposta a questa domanda potrebbe cambiare uno scenario globale nel giro di pochissimo, con effetti pesanti e forse ancor più gravi di quelli che la crisi energetica ha avuto sul continente europeo nel 2022. Lo scenario di un’annessione con la forza bellica potrebbe mettere in discussione l’esistenza stessa dell’industria, degli impianti e dei macchinari stessi di TSMC, colosso che nel 2021 fatturava oltre 56 miliardi di dollari.
Europa
In questo scenario l’Europa è senz’altro stretta tra politiche e decisioni di investimento che spesso non dipendono nè dai singoli paesi, nè dalla massa critica dell’Unione stessa. Nel febbraio del 2022 la Commissione guidata da Ursula von der Leyen ha approvato il Chips Act, un pacchetto da 42 miliardi di euro di investimento per andare a stimolare la produzione dei semiconduttori in loco. La numero uno dell’esecutivo di Bruxelles lo ha definito un piano per render il vecchio continente leader nel mercato dei chip: entro il 2030 il 20% della produzione dovrà avvenire in Europa.
The #EUChipsAct is a plan to make Europe a leader in the chips market.
We have a very clear target: by 2030, 20% of the world's microchips should be produced in Europe. https://t.co/hmYxyv5odd
— Ursula von der Leyen (@vonderleyen) February 8, 2022
Al momento le Big Tech stanno ancora valutando le proprie mosse, con Intel che non ha ancora iniziato a costruire i propri stabilimenti che pure ha annunciato tra Germania e Italia. In tutto il gigante americano dovrebbe investire 88 miliardi di dollari in Europa. Ma, se ancora non è chiaro, siamo di fronte a una maratona, non a una gara sui 100 metri. L’Italia ha dalla sua diverse eccellenze, come talvolta accade (vedi la space economy). Federico Faggin, veneto di origine, ha contribuito alla realizzazione del primo microprocessore al mondo in Intel nel 1971. Il nostro paese gioca un ruolo di rilievo con STMicroelectronics, azienda che ha coltivato al proprio interno diversi talenti che poi hanno fondato startup in giro per il mondo sempre nel settore dei semiconduttori. La sede è a Ginevra, ma i due azionisti di maggioranza con quote eguali sono lo Stato italiano e lo Stato francese.
Il dossier di StartupItalia: i link per approfondire
dal nostro magazine:
- La guerra dei chip e il ruolo di Taiwan. Un approfondimento
- Il Chips Act dell’Europa e perché interessa anche le startup
- Ha lavorato nella multinazionale italo-francese STMicroelectronics. Oggi è in Navitas, società di semiconduttori quotata in Borsa
- Il ruolo dei chip in ambito biotech
- Anche gli USA hanno il loro Chips Act. E vale 52 miliardi di sussidi
- La Cina non vuole perdere la guerra dei microchip
- Intel vorrebbe investire in Italia, ma guarda anche altrove. E in Germania alza la posta
- Le mosse di TSMC per attrarre talenti
- Samsung e i piani negli USA
- Una nostra intervista sul mercato dei semiconduttori
- Il profilo di Federico Faggin, l’italiano che ha lavorato al primo microchip
- La fabbrica di Samsung in Corea del Sud. Un affare da 230 miliardi di dollari
dalla stampa internazionale:
- Dal Financial Times un approfondimento sull’US Chips Act
- Il sito del MIT di Boston affronta la questione dei chip e del loro ruolo nella leadership americana del advanced computing
- Il ruolo di Taiwan nella guerra dei chip. Un articolo su The Atlantic
- Il New York Times ha scritto di una Guerra fredda tech
- Dal The Guardian un commento sul ruolo dei semiconduttori nella geopolitica
- The Verge ha trascritto uno dei suoi podcast in cui ha intervistato Chris Miller, autore di Chip War